Progetto

"La discriminazione etnica nel lavoro pubblico e privato: monitoraggio del fenomeno ed effettività delle tutele"

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Relazione finale Osservatorio Provinciale per l'Immigrazione di Lecce - Brindisi

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Discriminazione per motivi religiosi

In riferimento alla discriminazione per motivi religiosi, sono emersi episodi in cui i lavoratori stranieri sono oggetto di scherno mediante meccanismi di ridicolizzazione delle proprie pratiche religiose, la diversa religione professata diviene un elemento per sottolineare da “diversità” del lavoratore straniero, una diversità che cela meccanismi di inferiorizzazione tesi a sottolineare il fatto che il soggetto ora si trova in un altro luogo, un luogo nel quale è inutile continuare a conservare certe pratiche non utili a svolgere la vita secondo le “regole” e gli “stili di vita emancipati dell’Italia”.

 “Durante il Ramadam mi prendono in giro, mi ridicolizzano, dicono che ora sono in Italia e visto che Allah sta in Marocco qui non devo farlo. In più mi fanno dispetti mi fumano in faccia, mangiano maiale vicino a me. Anche fuori dal lavoro, per i marocchini è difficile, sono convinti che siamo tutti terroristi, la gente è veramente ignorante, non sanno nulla di islam, non sanno la differenza tra arabi e musulmani per loro è la stessa cosa, sono proprio ignoranti...”

 “Anche per le cristiano-ortodosse c’è un continuo ridicolizzare le pratiche religiose, mi prendono in giro quando mi vedono pregare e leggere i testi che mia madre mi manda dalla Romania, mi dicono perché stai sempre a leggere e a pregare, dici che sei cristiana allora che sono tutte 'ste cose, com’è che i vostri preti si sposano…?!?”

Discriminazione oggettiva

Per quanto riguarda la macro-area della “discriminazione oggettiva”, i dati riguardanti la discriminazione nell'accesso al lavoro[1] hanno registrato percentuali sensibilmente inferiori a quelle prima presentate, se infatti aveva dichiarato di sentirsi discriminato sul posto di lavoro il 26% degli intervistati, quelli a cui è stato esplicitamente rifiutato un posto di lavoro perché stranieri sono stati l'8%. Percentuale che si distribuisce equamente tra donne e uomini. Il rifiuto esplicito ha riguardato il 3% del totale di coloro i quali lavorano nel settore agricolo, il 2% di coloro che lavorano nel settore domestico e nei servizi e l'1% di chi lavora in edilizia. Rispetto al paese di origine si è visto rifiutare un posto di lavoro il 5% dei cittadini provenienti dal continente africano e il 3% dei cittadini dell'Est - Europa.

Il rifiuto esplicito di assunzione ha riguardato nel 75% dei casi soggetti con scolarizzazione medio-alta (il 50% era in possesso di diploma e il 25% di laurea) e nel 25% dei casi soggetti che avevano frequentato solo gli anni della scuola dell'obbligo. Non sorprende particolarmente il dato che registra una minore discriminazione all'accesso al lavoro rispetto alla discriminazione percepita nello svolgimento dell'attività lavorativa. La cosa potrebbe essere spiegata facendo riferimento alle caratteristiche della domanda di lavoro che si rivolge e trova un bacino di offerta prevalentemente nella forza lavoro migrante. Il mercato del lavoro italiano, così come quello di tutti i paesi a sviluppo capitalistico avanzato, è molto segmentato e la disoccupazione presenta una peculiare concentrazione per area geografica, genere, età, posizione famigliare, e livello di istruzione [Payar A., Reyneri E., 2000]. Bisogna anche tenere in conto che in Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, esiste un forte squilibrio tra le caratteristiche dell’offerta di lavoro e quelle della domanda di lavoro.

Nella struttura occupazionale italiana, le attività professionalmente elevate non sono più del 24% contro il 37-38% della Germania e dell’Inghilterra e il 32% della Francia. Al contrario le attività poco qualificate superano il 36%, contro il 29-34% dei paesi europei economicamente avanzati [Ibid.]. Come mostrano anche recenti studi economici [Forges Davanzati G., 2005], nelle aree meridionali la disoccupazione colpisce principalmente soggetti di giovane età con un elevato tasso di scolarizzazione e professionalizzazione. Il motivo sarebbe da ricercare nella natura della domanda di lavoro che si rivolge in particolar modo verso occupazioni dal “basso profilo” socio economico; questo tipo di attività esercitano sempre meno capacità attrattiva per la manodopera locale e diventano occupazioni dove trova allocazione soprattutto manodopera straniera. All’interno di questo quadro economico la “forza lavoro migrante” non è quasi mai concorrenziale a quella autoctona, eccezion fatta per le “fasce deboli” dei lavoratori italiani (giovani non qualificati e non sostenuti da reti famigliari), ma visto che risponde a una domanda di lavoro che trova scarsa offerta sul mercato locale della forza lavoro si configura come sostitutiva o complementare (l’esempio più emblematico è il lavoro domestico, dove i lavoratori immigrati hanno sostituito una forza lavoro locale cui era venuto meno il ricambio generazionale o anche l’attività di raccolta stagionale nell’agricoltura mediterranea, dove la concentrazione occupazionale dei cittadini migranti in queste attività ha sostituito il ricorso a sempre meno disponibili lavoratori italiani marginali). Va aggiunto che questa complementarietà nei fatti si traduce in “integrazione subalterna, vale adire che spesso i cittadini migranti sono accettati nei luoghi di lavoro sulla base dell’idea che il ruolo ad essi destinato sia quello di occupare i posti a cui gli italiani non ambiscono più, con il corollario implicito che, qualora si rendano disponibili occupazioni più interessanti, gli italiani abbiano un indiscutibile diritto di prelazione [Ambrosini M., 2005]. Una situazione, in certa misura, favorita anche dai meccanismi di reclutamento della forza lavoro. Spesso, infatti, dato che l’occupazione della popolazione migrante tendenzialmente si concentra in settori economici marginali, il “mercato del lavoro”, si viene a configurare non come un unico bacino, in cui domanda e offerta si incontrano, ma si assiste ad una continua ripartizione in sub mercati, distinti e poco o niente comunicanti, dove il reclutamento della forza lavoro è in larga misura delegato agli stessi gruppi di migranti che sanno dove e come trovare altri lavoratori a costi di reclutamento assai bassi [Gambino F., 2003].

È quanto emerso anche dall’intervista fatta ai due cittadini albanesi impiegati in agricoltura, i quali sottolineavano che a differenza del passato “La piazza non è più il luogo del reclutamento della manodopera, che avviene attraverso la conoscenza diretta, i datori, durante i periodi di maggior lavoro, quando servono più persone, chiedono a noi di procurargli altri lavoratori”. Una situazione questa che permette di ridurre i costi, sia in termini temporali che economici, sfruttando e funzionalizzando i “legami comunitari” rispetto alle esigenze datoriali.

Il processo di inclusione occupazionale dei cittadini migranti operato dialetticamente dal processo di ristrutturazione economica del mercato del lavoro, da un lato, e dall’azione e intermediazione delle reti, dall’altro, allo stato attuale presenta seri rischi di “ghettizzazioni” e di “confinamento” dei cittadini stranieri in occupazioni scarsamente qualificate e tutelate. Per ricoprire questo tipo di mansioni lavorative essere un cittadino non italiano, non rappresenta affatto un problema ma anzi è un “vantaggio”, soprattutto se si tiene conto di un paradosso (in realtà solo apparente) che riguarda il mercato del “lavoro immigrato”. Da un lato si nega ufficialmente la necessità del fabbisogno di manodopera aggiuntiva e dal lato opposto vi è un utilizzo endemico ed assai diffuso di forza lavoro immigrata in vari segmenti del mercato del lavoro, in particolare nel settore terziario, dove l’impiego di manodopera migrante la si ritrova concentrata a svolgere mansioni ad “uso intensivo di lavoro” [2][Reyneri E., 1998].

Un paradosso la cui “apparenza” è facile da svelare se si tengono contemporaneamente presenti due fenomeni strettamente legati tra loro: l’emanazione di leggi restrittive che se è vero che non raggiungono l’obiettivo di ridurre gli ingressi dei cittadini stranieri sul territorio nazionale, ne determinano drammaticamente però la condizione giuridica al momento dell’ingresso [Palidda S, 2000], e i fenomeni di ristrutturazione del sistema economico e dei settori occupazionali determinati dalla crisi del sistema fordista[3].

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Note

[1] Le tavole di contingenza riguardanti questi dati sono riportati in allegato, cfr. “allegato 2”. Torna al testo

[2] La concentrazione dei lavoratori immigrati all’interno di queste attività va letta non tanto come conseguenza della divisione sociale del lavoro tra manodopera “nazionale” e manodopera immigrata ma più tosto come conseguenza della divisone tecnica del lavoro. Una divisione quest’ultima che ha contribuito a rafforzare la doppia concentrazione dei lavoratori immigrati in specifiche attività (quelle maggiormente precarizzate) e allo stesso tempo nei livelli più bassi di qualifica. Per usare le parole di Sayad [Idem.], il processo di svalorizzazione e inferiorizzazione della forza lavoro “se lo si scopre più facilmente o in maniera più drammatica e accentuata presso gli immigrati, non si deve dimenticare che rimane la caratteristica intrinseca della posizione che i lavoratori, soprattutto quelli collocati al livello più basso della scala e della gerarchia di comando, occupano nel processo di produzione” [Ibid., pag. 236]. È nelle caratteristiche strutturali del mercato del lavoro che vanno ricercati i motivi della concentrazione dei migranti in posizioni dequalificate, non a caso, in un brano di intervista che Sayad riporta nel suo lavoro, un operaio migrante dichiarava che “quando il tuo collega di lavoro a fianco non è un altro immigrato, ci sono delle forti probabilità che si tratti di una francese e non di un francese (cioè di una donna e non di un uomo)” [Ibid., pag. 223]. Torna al testo

[3] Dagli anni 70 si sono innescati processi di mutamento economici che hanno portato a importanti trasformazioni nei sistemi economici e produttivi di tutti i “paesi sviluppati”. Si è passai da sistemi “economici di scala” basati principalmente su produzioni e consumi di massa, a sistemi di produzione “just in time”, dove le produzioni economiche hanno vita principalmente all’interno di piccole e medie imprese. Il settore lavorativo con il maggior numero di occupati è divenuto quello dei servizi (precedentemente era quello dell’industria), all’interno del quale i lavoratori sono impiegati principalmente mediante contratti di breve e media durata. Queste trasformazioni nel loro complesso hanno alimentato continui processi precarizzazione e informalizzazione della condizione lavorativa, dovuti in primo luogo allo sviluppo e all’espansione concomitante del settore terziario e delle produzioni manifatturiere dequalificate che si sono affiancati a settori economici che già facevano largo uso di lavoro informale (nel caso dell’Italia meridionale ne è un esempio il settore agricolo e il lavoro bracciantile) [Macioti M.I., Pugliese E., 2003]. Si è così incrementata una domanda di lavoro dequalificato, precarizzato e scarsamente retribuito che non sempre ha trovato nel mercato del lavoro autoctono un bacino d’offerta capace di allocare forza lavoro in queste attività. Questa situazione ha determinato nel mercato del lavoro processi di segmentazione e compartimentazione dello stesso, dove la forza lavoro migrante ha rappresentato, e continua a rappresentare, un bacino di mano d’opera cui attingere per soddisfare questo particolare tipo di domanda di lavoro [Gambino F., Idem] .Torna al testo