Progetto

"La discriminazione etnica nel lavoro pubblico e privato: monitoraggio del fenomeno ed effettività delle tutele"

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Relazione finale Osservatorio Provinciale per l'Immigrazione di Lecce - Brindisi

Pagina Due


I dati ottenuti incrociando le variabili sesso e settore di inserimento lavorativo con l'indicatore “discriminazione percepita” portano ad ipotizzare una stretta correlazione tra il tipo di lavoro svolto e le forme di discriminazione percepite. Infatti il settore lavorativo domestico, settore in cui trova occupazione principalmente la manodopera femminile, è quello in cui si registra il più alto tasso di “discriminazione percepita”. All'interno di questo settore, così come anche negli altri dove è allocata manodopera femminile, si verificano spesso forme di discriminazione multipla, dovuta al fatto di essere discriminate in quanto donne e in quanto straniere.

Sia durante il focus group, che da una delle due interviste, è emerso che spesso le lavoratrici straniere sono vittime di discriminazione, non solo in virtù della loro condizione di cittadine non italiane, ma in anche quanto donne sono state in diversi casi vittime di molestie sessuali. Diversi sono gli episodi emersi che vanno dalla richiesta esplicita di rapporti sessuali in “cambio” di un salario più alto fino a molestie fisiche. Durante l’intervista è ad esempio emerso che mentre le diverse “squadre” di lavoratrici erano impegnate nello svolgere le proprie attività (si trattava di lavoro in agricoltura), il datore di lavoro aveva “l’abitudine di toccare il fondoschiena delle ragazze straniere che stavano a lavorare” una doppia discriminazione, ad avviso dei soggetti intervistati, perché questo comportamento aveva ad oggetto le sole donne non italiane anche quando sul luogo di lavoro c’erano colleghe italiane visto che “con loro non facevano certe cose”. Come dice una delle stesse intervistate “Dobbiamo sempre dimostrare di essere brave e buone, di non essere delle “puttane” per il solo fatto di  venire dall’est”. Di fronte a questi episodi, data la condizione di solitudine, smarrimento e abbandono, che molte delle donne straniere vivono, per sottrarsi a queste situazioni, non hanno altra soluzione se non quella di interrompere il rapporto lavorativo.   

Situazioni critiche e bisognose di attenzione sono emerse nel settore del lavoro dell’assistenza e cura delle persone anziane, specie quando questo lavoro prevede forme di convivenza tra lavoratrice e assistito. Diverse sono i tipi di discriminazioni percepite, vanno da forme di forte violenza psicologica fino a situazioni che sembrano configurarsi come veri e propri casi di “semi-segregazione”. Affidiamo alle stesse parole delle dirette interessate il racconto di questi episodi.

 “Sei continuamente vittima di violenze psicologiche, non solo da parte del tuo assistito, ma soprattutto da parte dei sui parenti. Approfittano del fatto che sei sola, ti terrorizzano dicendo che non puoi uscire di casa altrimenti la polizia ti rimanda in Romania, sfruttano i tuoi punti di debolezza, a me che avevo mia figlia in patria, mi ripetevano che era meglio così, che stesse lontana da me, visto che non sarei potuta essere una buona madre”.

 “Non ti permettono di manifestare il tuo disagio, il tuo dolore, ti costringono ad essere sorridente, a dare l’immagine di una che sta bene, quando sono stata proprio male, quando non ce la facevo più, la figlia della donna che assistevo (che era medico), mi ha portato degli antidepressivi perché potessi continuare a lavorare. Anche quando la madre stava particolarmente male (soffriva di demenza senile) mi lasciavano sola, ho passato quasi tutte le notti in bianco (dormivo con la signora che accudivo) quando proprio non ce la facevo chiamavo la figlia per farmi aiutare ma non venivano, ero sempre lasciata sola!”.

 “Nel primo periodo la mia sudditanza psicologica era tale, che quando hanno saputo che ero incinta, mi hanno convinto ad abortire, sono tornata in Romania per farlo all’insaputa del mio compagno italiano. Al ritorno ho avuto bisogno di fare diverse visite ginecologiche per via di un infezione, era già difficile che ti dessero il permesso di farlo, e in più da quel momento i parenti della mia assistita non si facevano più toccare da me -prima le curavo le unghie o i capelli- perché dicevano che potevo infettarle. Erano convinte che siccome necessitavo di queste visite ginecologiche avessi qualche malattia infettiva”.

 “ Quando e se poi ti regolarizzano, è ancore peggio, ti è continuamente rinfacciata la cosa, te lo fanno pesare e ti chiedono di lavorare ancora di più se è possibile, sei perennemente in debito con loro, vogliono essere ringraziati per il fatto della regolarizzazione. […] Tra l’altro mi hanno regolarizzata, per modo di dire, perché mi danno solo 400 euro al mese e devo pagarmi da sola i contributi, e ora che non vivo più in casa dell’assistita praticamente non mi restano neanche i soldi per comprarmi da mangiare".[1]  

L’elemento ricorrente in questi racconti è la sensazione di solitudine che porta a percepire lo stato di cose come immutabile “status quo”, era sempre stata la “solitudine” il motivo che aveva portato queste stesse donne ed altre a non denunciare gli episodi di molestie subite. È indubbio quindi la necessità di prevedere dei percorsi che facilitino l’accesso a forme di cittadinanza sociale e effettiva integrazione nel tessuto sociale. In questa direzione molto utili potrebbero essere delle forme di associazionismo o cooperative, capaci di mettere in rete i diversi soggetti impiegati in questo tipo di lavoro. Associazioni e/o cooperative autogestite in grado di fornire servizi e supporto informativo, che fungano anche da intermediarie tra la domanda di lavoro e l’offerta. In questo modo si potrebbero sottrarre ampi spazi di “gestione discrezionale di potere” sia nel momento dell’assunzione che durante l’erogazione delle prestazioni lavorative. Sarebbe, quindi, utile creare dei punti di riferimento sul territorio in grado da fungere da supporto alle lavoratrici e che ne tutelino effettivamente i diritti, che nella prassi, allo stato attuale, sono sempre più disattesi anche nel momento in cui le lavoratrici vengono, per lo meno “formalmente”, regolarizzate.

Molte delle forme di discriminazione riscontrate in questo settore sono poi da far risalire agli episodi di quotidiana convivenza (sia nel caso in cui il rapporto lavorativo è prestato vivendo nella stessa casa dell’assistito, sia quando avendo una propria abitazione ci si reca in casa dell’assistito tutti i giorni per le “sole” ore di lavoro), che si configurano come elementi di mortificazione a cui sono costrette le lavoratrici. Tutti gli episodi raccontatici vanno nella direzione di sottolineare e rimarcare il ruolo ed il posto, che rapporti sociali largamente improntati su relazioni informali e patriarcali, assegnano alle lavoratrici. La scelta di declinare il rapporto lavorativo in maniera tale che si generi il minor “spreco possibile di risorse economiche” per chi domanda questo tipo di lavoro, da vita a situazioni al limite del paradossale, ogni infrazione delle regole, anche alle più banali, costa a queste donne “urla e offese”. Nella gestione del rapporto di convivenza si tende a separare nettamente gli spazi fisici e i “servizi” di cui è possibile fruire, quello che bisogna fare per l’assistito/a da quello che invece è “concesso” alla “lavoratrice ospite”. Episodi questi che sottolineano la funzionalizzazione, la modulazione delle proprie esigenze e della vita quotidiana di queste donne, a quelle che sono le “indiscutibili” esigenze poste dalle richieste del datore di lavoro.

 “In casa poi ti ripetevano sempre che bisognava risparmiare, non mi davo la possibilità di riscaldare la stanza dove dormivo, si accendeva la stufa solo vicino al letto dell’assistita, non potevo vedere la tv, se dimenticavi una luce accesa partivano le urla e le offese, la lavatrice si poteva usare solo per lavare le lenzuola, tutto il resto doveva essere lavato a mano sempre per risparmiare”.

 “Eri limitata nella tua alimentazione, se avevi del cibo dovevi nasconderlo, quando venivano a trovarmi mie connazionali, mi vedevano tirare fuori, da terra, da sotto la credenza del pane che nascondevo altrimenti non mi davano altro da mangiare. Non potevo cucinare nulla di quello che mangiavo abitualmente, mi dicevano che la cucina del mio paese faceva schifo e puzzava, potevo mangiare solo ciò che cucinavo per la mia assistita”.

 “Ora che non ho più un rapporto di lavoro che prevede la convivenza, le cose vanno meglio anche se comunque, non mi danno il permesso di assentarmi dal lavoro neanche per un giorno (lavoro 7 giorni su 7) quando sta male mia figlia, mi dicono lasciala a qualcuno, e vieni a lavorare lo stesso, io non ho nessuno di fiducia a cui lasciarla, non posso mica lasciarla al primo che capita non è mica un pacco postale”.

 

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Note

[1] Situazioni simili sono emerse anche durante l’intervista ai “braccianti agricoli”, anche in questo caso i più “tutelati” (quelli cioè con un contratto di lavoro) sono poi penalizzati a causa di un rapporto di lavoro duraturo che “pretende” dedizione; il che comporta straordinari non pagati e ricatti taciti da parte dei datori di lavoro, soprattutto quando il lavoratore non ha la carta di soggiorno, ma ancora un “contratto di soggiorno” da rinnovare ogni anno. “Quando lavori tutto l’anno non stai a badare se fai una mezz’ora o un’ora in più, non puoi lavorare vedendo sempre l’orologio, se un lavoro deve essere finito in giornata tu lo finisci.[…] Quando gli ho chiesto un aumento di 5 euro che mi ha rifiutato, gli ho detto che avevo intenzione di trovare un altro lavoro e lui mi ha detto che non era corretto nei sui confronti perchè quando ho avuto bisogno del contratto per il permesso di soggiorno lui me lo ha fatto”. Per quanto riguarda il salario percepito c’è da registrare che questo varia in relazione a diverse situazioni, ad esempio, a Leveranno, la paga in agricoltura è di 5€/h, ossia 25€ a giornata (per quelli che non sono in regola). Chi ha un contratto regolare prende 20€ (5 sono detratti per i contributi previdenziali). Chi lavora 8 ore al giorno prende 35€. Stando a quanto affermato dagli intervistati, queste cifre mutano anche in base ai comuni nei quali si va a lavorare, nei paesi limitrofi la paga è leggermente superiore, una giornata lavorativa viene pagata mediamente 35/36 euro. Torna al testo