Progetto
"La discriminazione etnica nel lavoro pubblico e privato: monitoraggio del fenomeno ed effettività delle tutele"
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Relazione finale dell' Osservatorio Provinciale sull'Immigrazione di Lecce - Brindisi
Dati statistici di Cittadini non U.E. e neo comunitari residenti nelle province di Brindisi e Lecce ripartiti per discriminazione percepita e per: settore di inserimento lavorativo, sesso, paese di origine, titolo di studio, religione professata.
Dati statistici di Cittadini non U.E. e neo comunitari residenti nelle province di Brindisi e Lecce ripartiti per discriminazione all'accesso al lavoro e per: settore di inserimento lavorativo, sesso, paese di origine, titolo di studio, religione professata.
Dati statistici di Cittadini non U.E. e neo comunitari residenti nelle province di Brindisi e Lecce e ripartiti per tempo lavorativo erogato rispetto ai colleghi italiani e per: settore di inserimento lavorativo, sesso, paese di origine, titolo di studio, religione professata
Testimonianze di immigrati residenti nelle province di Brindisi e Lecce
Focus Group con lavoratrici immigrate nel settore dei servizi (assistenza, cura della persona, ristorazione/bar).
Intervista ad alcuni immigrati impiegati nel settore agricolo
Nel territorio di riferimento sono stati somministrati 100 questionari e realizzati un focus group[1] e due interviste in profondità[2]. I soggetti a cui è stato somministrato il questionario sono stati nel 55% dei casi uomini e nel 45% donne, di questi il 56% è risultato impiegato nel settore dei servizi (principalmente come colf, addette all’assistenza e cura delle persone, camerieri, lavapiatti, commessi e soggetti impiegati in attività “marginali” come ad esempio gli addetti alle pulizie), il 27% nel settore agricolo, il 14% nel settore edile ed il 3% nella piccola e media impresa. La maggior parte (il 69%) sono soggetti provenienti dall’Europa dell’est, nello specifico il 40% sono cittadini di nazionalità albanese, il 14% di nazionalità romena, il 6% di nazionalità polacca e con percentuali più basse sono presenti moldavi, bulgari, ucraini e russi. Il secondo gruppo per numero di presenze (il 18%) è quello proveniente dal continente africano, il gruppo più numeroso è costituito dai cittadini marocchini (con il 13%). In fine, il 13% sono cittadini provenienti dall’“estremo oriente” (principalmente dallo Sri-Lanka, Filippine, Pakistan e Cina).
Per una prima analisi dei dati si è proceduto alla definizione di due macro-aree riguardanti il fenomeno della discriminazione: la “discriminazione percepita” e la “discriminazione oggettiva”[3]. Per la prima macro-area è stato individuato come indicatore l'item del questionario[4] che chiedeva “Ti sei mai sentito vittima di discriminazione nel tuo ambiente di lavoro?”; l'item formulato come variabile dicotomica (si/no) è stato considerato variabile dipendente ed è stato incrociato con altre cinque variabili considerate indipendenti (sesso, settore di inserimento lavorativo, paese di origine, religione, titolo di studio) per vedere se il fenomeno “discriminazione percepita” mutava o meno in relazione alle variabili prese in considerazione. Per quanto riguarda la macro-area denominata “discriminazione oggettiva>” sono stati considerati come indicatori gli items che chiedevano “Ti hanno mai detto esplicitamente che non potevano darti un posto di lavoro – in nero o con regolare contratto - perché sei straniero o di una particolare nazionalità?” e “Rispetto ai tuoi colleghi italiani, ti viene/veniva richiesto di lavorare per più tempo?”. Anche queste due variabili sono state considerate come dipendenti e incrociate con le stesse cinque variabili indipendenti sopra indicate. L'analisi dei dati è stata fatta sia in riferimento all'intero campione sia su tre sottocampioni, quest'ultimi sono stati ottenuti aggregando i dati in base alle province di residenza degli intervistati (Verona,Bari, Brindisi-Lecce), in maniera tale da far emergere anche le specificità riscontrate nelle diverse realtà locali[5].
In riferimento alla “discriminazione percepita” dai dati[6]è emerso che il 26% degli intervistati si sente discriminato sul posto di lavoro, di questi il 53,8% è rappresentato da donne. La discriminazione pare essere percepita maggiormente tra le donne con il 30,4%, che ha detto di sentirsi vittima di discriminazione, contro il 22,2% degli uomini.
In riferimento al settore di inserimento lavorativo, i servizi sono il settore dove è maggiormente sentita la discriminazione. Si concentrano nel terziario infatti il 61,6% dei lavoratori che hanno dichiarato di essere discriminati[7], seguito dal settore agricolo con il 19,2%, da quello edile con il 15,4% e dall'industria che registra solo il 3,8%.
In relazione al paese di origine, il gruppo che si sente maggiormente discriminato è costituito dai cittadini provenienti dal continente africano[8] tra essi il 50% ha detto di essere discriminato, al secondo posto con il 24,6% ci sono i soggetti provenienti dall'Europa dell'est[9], quest'ultimi però rappresentano la maggioranza assoluta -con il 65,4%- di coloro i quali hanno dichiarato di sentirsi vittime di discriminazione. Sensibili scostamenti tra i dati si sono registrati incrociando il titolo di studio con la “discriminazione percepita”, tanto da poter ipotizzare una correlazione positiva tra elevata scolarizzazione e percezione della discriminazione, visto che il 73% di coloro i quali si sono definiti discriminati hanno un titolo di studio medio-alto. Infine riguardo alla religione professata è emerso che tra i soggetti discriminati il 32,3% è di religione musulmana, il 34,6% è cristiano ortodosso e il 20,8% cattolico.
Sulla base di questa lettura, confrontando tra loro i risultai, è possibile avanzare alcune ipotesi; le variabili che sembrano incidere in maniera rilevante sulla percezione della discriminazione sono il sesso, il settore lavorativo ed il titolo di studio. In riferimento al titolo di studio posseduto si potrebbe affermare che probabilmente la maggiore scolarizzazione rende i soggetti maggiormente consapevoli delle forme di discriminazione subita, così come è anche probabile che il sentirsi discriminati sia dovuto al vivere una situazione nella quale non è possibile mettere a frutto le proprie competenze, una situazione in cui si è costretti a fare lavori di “ripiego”, viste le difficoltà che si incontrano nel momento in cui si decide di intraprendere il difficile percorso burocratico, che dovrebbe portare al riconoscimento del titolo di studio conseguito in un paese extra-europeo. Inoltre, come è emerso durante il focus group fatto con le lavoratrici dei “servizi”, forme di discriminazione da parte dei colleghi[10] si hanno anche nel momento in cui, un soggetto migrante e lavoratore decide di affiancare lo svolgimento della propria attività lavorativa con la scelta di iniziare un percorso di studi in Italia, per cercare di migliorare la propria condizione socio-economica.
“lavoro in un bar, sono discriminata dalle colleghe, mi accusano di fare due cose lavorare e studiare, per loro una immigrata non può studiare, già e tanto che fa questo lavoro. Ma io a differenza loro, che lavorano da sempre qui al bar, non voglio preparare panini e impastare focaccia per tutta la vita. In Marocco facevo la contabile, lavoravo in un agenzia di assicurazione, quello che faccio ora non è il lavoro che vorrò fare per tutta la vita, per questo sto continuando a studiare”.
Se nel periodo fordista, Sayad [A., 2002] coglieva nell'identificazione della figura del migrante con quella dell'operaio generico “la funzione che l’immigrazione assume nei paesi industrializzati e la situazione del lavoratore immigrato (il suo status sociale, la relazione con il suo lavoro)” [Ibid., pag. 219], oggi nella fase Postfordista del “capitalismo flessibile”, la definizione di lavoratore precario e dequalificato, diviene, nel caso dei lavoratori immigrati, non più e non solo una semplice definizione tecnica, ma piuttosto e fondamentalmente una definizione sociale, che cristallizza in sé e traduce nel luogo di lavoro, il rapporto di forza all’origine delle emigrazioni per motivi economici, riproponendo nella relazione lavorativa gli effetti dell’intero ambiente sociale, politico e culturale con cui oggi viene gestito il fenomeno migratorio. Si opera così uno slittamento semantico che traduce in termini tecnici (lavoratore dequalificato e precario) una discriminazione sociale ed economica a cui i lavoratori migranti sono costretti. Decidere di continuare a studiare, di cambiare lavoro, avanzare richieste e non semplicemente accettare quello che viene “offerto”, vuol dire mettere in discussione questa definizione sociale del lavoratore immigrato, vuol dire non accettare un sistema di potere attraverso il quale si perpetuano forme di funzionalizzazione delle “periferie” (intese in senso geografico che socio-economico) rispetto alle esigenze dei “centri”[Amin S., 1997, 1999; Wallerstein I., 1985]. La discriminazione in questo caso funzionerebbe come meccanismo attraverso cui sottolineare e mantenere dei rapporti di forza costituiti che rischiano di essere minati nel memento in cui uno degli attori coinvolti nella relazione sociale decide di non “recitare” più la parte che li viene assegnata [Goffman E., 2003]. Il cittadino immigrato diventa un “ingrato” nella misura in cui inizia a rivendicare l’accesso a diritti sociali, come quello all’istruzione e ad uno “stile di vita ritenuto più gratificante” rifiutando quanto gli è “cristianamente offerto” [Perrone L., 1998]. Come notano Elias e Scotson [2004] “l’esclusione e la stigmatizzazione degli esterni” divengono armi potenti per costruire elementi identitari, affermare la propria superiorità e mantenere saldamente l’altro al proprio posto. Un esercizio di potere ed una discriminazione sociale che trovano la loro condizione decisiva in uno “squilibrio di potere” che così può essere riaffermato.
Note
[1] Il focus group è stato realizzato coinvolgendo lavoratrici impiegate nel settore dei servizi. Torna al testo
[2] Le interviste hanno riguardato una donna di cittadinanza albanese impiegata come “lavoratrice agricola stagionale” e due uomini di cittadinanza albanese anch’essi impiegati nell’attività bracciantile, attività che a differenza della prima intervistata, svolgevano per l’intero anno all’interno di serre ubicate nell’agro di Leverano (Le).Torna al testo
[3] Cfr. la relazione dei ricercatori del 12-10-2007. Torna al testo
[4] Il questionario somministrato era suddiviso in sei sezioni: dati strutturali; richiesta di informazioni sulle attività lavorative svolte in Italia e su eventuali discriminazioni avvertite in relazione all’ottenimento di opportunità di lavoro; richiesta di informazioni sulla tutela in caso di infortuni, malattie e vertenze sindacali; richiesta di informazioni sul lavoro attuale o l’ultimo lavoro svolto: come lo si è/era ottenuto, come corrisponde/corrispondeva o meno al contratto o agli accordi verbali precedenti l’assunzione, le eventuali discriminazioni avvertite; richiesta di informazioni sul rapporto con il datore di lavoro, i superiori (colleghi di lavoro che possono dare ordini) e colleghi di lavoro alla pari; richiesta di informazioni su difficoltà di natura culturale o religiosa eventualmente incontrate nello svolgimento dell'attività lavorativa. Torna al testo
[5] Nella stesura della relazione si fa riferimento esclusivamente ai dati riferiti al territorio “Salentino”.Torna al testo
[6] Le tavole di contingenza riguardanti questi dati sono riportati in allegato, cfr. “allegato 1”. La maggior parte di questi soggetti (il 38,5%) lavora nell'ambito domestico, si tratta in particolarmodo di colf e “badanti”, gli altri sono impiegati nel settore turistico-alberghiero come camerieri/e e lavapiatti, nel settore del commercio come commessi e in altre attività “marginali” come ad esempio coloro che sono dipendenti di ditte di pulizia.Torna al testo
[7] La maggior parte di questi soggetti (il
38,5%)
lavora
nell'ambito domestico, si tratta in particolarmodo di colf e
“badanti”, gli altri sono impiegati nel settore
turistico-alberghiero come camerieri/e e lavapiatti, nel settore
del commercio come commessi e in altre attività
“marginali”
come ad esempio coloro che sono dipendenti di ditte di pulizia.
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[8] Nel campione di riferimento erano soprattutto cittadini marocchini.Torna al testo
[9] Nel campione di riferimento erano
soprattutto
cittadini/e
provenienti dall'Albania, dalla Romania e dalla Polonia.
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[10] Come notano Basso e Perocco [2003], le forme di discriminazione fatte dai colleghi di pari grado verso i colleghi “stranieri”, sul piano dei rapporti socio-economici hanno come principale effetto la messa in “concorrenza” tra lavoratori salariati, la conseguenza di ciò è la divisione e la gerarchizzazione al proprio interno della massa di lavoratori, spostando così il vasto conflitto (che un tempo si sarebbe definito) tra capitale e lavoro su un altro piano, quello del conflitto tra lavoratori, tra popoli, tra “culture”. Attraverso questo meccanismo si fa leva su reali disuguaglianze sociali e reali differenze di tradizioni, usi, costumi, modi di vivere per acuirle fino al parossismo e allo scontro, facendo del razzismo una forma che si “configura come rapporto sociale di oppressione tra classi e tra gruppi sociali, funzionale a comandi materiali e a interessi di classe tutt’altro che oscuri” [Ibid., pag. 17]. Torna al testo