Progetto
"La discriminazione etnica nel lavoro pubblico e privato: monitoraggio del fenomeno ed effettività delle tutele"
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Relazione finale Osservatorio Provinciale per l'Immigrazione di Lecce-Brindisi
Pagina Quattro
Norme nella legge Italiana e discriminazione oggettiva
Norme come quelle contenute nella legge italiana 189 del 2002 che prevedono l’individuazione preventiva dei datori di lavoro, l’abolizione dell’entrata per ricerca di lavoro, la fissazione di quote di ingresso più o meno arbitrarie (come avviene ad esempio per i lavori stagionali in agricoltura), norme che subordinano completamente il lavoratore alla volontà datoriale (come di fatto fa il contratto di soggiorno), non fanno altro che incentivare un mercato di forza lavoro migrante, di soggetti resi istituzionalmente deboli con scarso o nullo potere contrattuale, che si rivela particolarmente funzionale alla domanda di lavoro precario/flessibile espressa da diversi agenti economici [Basso P., Perocco F., Idem]. Si instaura così una dialettica tra stato e mercato, in cui i processi di “clandestinizzazione” ed i fenomeni di razzismo istituzionale, consegnano agli agenti economici un utile strumento di svalorizzazione della forza lavoro, una situazione utilissima alle imprese perché mette a loro disposizione una forza lavoro priva di diritti da sottoremunerare ed utilizzare per ridurre il livello generale dei costi di produzione [Ibid.].
Questo apparente paradosso dunque permette di palesare una situazione strutturale ai paesi a capitalismo avanzato dove i processi di divisione e subordinazione della forza lavoro dipendente si delineano come caratteristica distintiva dell’attuale modello di sviluppo. Una situazione che trova la sua legittimazione istituzionale nell’emanazione di leggi riguardanti il lavoro (nel caso italiano la legge 30 del 2002) che determinano spiccati processi di flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro[1]. Il risultato di queste politiche è un sistema economico che tende a polarizzare le occupazioni nel mercato del lavoro tra mansioni altamente specializzate e remunerate e mansioni con caratteristiche opposte ma tuttavia necessarie e funzionali al mantenimento dell’equilibrio generale del sistema. Come ricorda Harris [N., 2000], quanto più la forza lavoro dei paesi sviluppati si specializza, tanto più diviene necessario il supporto dei lavoratori generici, di lavoratori che siano in grado di riprodurre le “condizioni materiali dei lavori immateriali” per dirla con Dal Lago [A., 2003], il lavoro precarizzato e dequalificato permette di riprodurre “la base fisica, sporca e faticosa di uno sviluppo sempre più orientato alla produzione e alla distribuzione su scala globale di “idee”, come i marchi dell’abbigliamento, il software, l’innovazione tecnologica e culturale, cioè in generale i beni intellettuali” [Ibid., pag. 114] e in più permette di fornire servizi essenziali sempre meno garantiti dallo Stato" [2]. Il lavoro precarizzato diviene nell’epoca del “capitalismo flessibile” la componente su cui scaricare tutte le incertezze di un sistema sempre meno inclusivo dove gli esclusi sono controllati ed impiegati in attività di servizio ai cittadini inclusi [Perrone L., 2005, 2007].
Si potrebbe concludere che la discriminazione all'accesso al lavoro, agisce nella misura in cui crea nel mercato del lavoro l'esistenza di segmenti occupazionali tra loro poco comunicanti che operano forme di inclusione subalterna dei lavoratori migranti. Si tratta di occupazioni all'interno delle quali il lavoro svolto dai migranti risulta funzionale all'esistenza di tutte quelle forme lavorative dalle quali, una grande parte di essi, assieme alle altre “fasce deboli della società”, sono invece esclusi mediante forme di sbarramento all'accesso. Situazioni queste che sono efficacemente riassunte dalle stesse parole di due intervistate:
“Mi sono rivolta anche ad agenzie interinali per cambiare lavoro e anche se hanno preso i miei dati e il mio curriculum, mi hanno detto di non farmi illusioni perché prima di me ci sono tanti italiani senza lavoro”.
“Ho provato a cambiare lavoro, volevo fare qualcosa che mi piacesse di più, che sentissi più mio. Sono andata a chiedere in un importante negozio di abbigliamento, e qui nonostante fossi stata raccomandata da una persona importante, nonostante il colloquio fosse andato bene tanto da dirmi di aspettare la chiamata per iniziare a lavorare, quando ho effettivamente ricevuto la chiamata mi hanno detto che non potevo essere assunta perché il loro avvocato riteneva esserci troppi problemi burocratici da affrontare per l’assunzione di una straniera, per tanto hanno preferito evitare i problemi e assumere un italiana”.
Il secondo indicatore utilizzato per “definire” la “discriminazione oggettiva”, è stato l'item che chiedeva ai soggetti se li veniva richiesto di lavorare per più tempo rispetto ai colleghi italiani. Questi dati quindi non si rivolgono all'intero campione ma bensì al 56% di esso, a quella porzione cioè che svolge una attività lavorativa assieme a colleghi di lavoro italiani[3]. Tra essi il 13% (tutti uomini) ha dichiarato di lavorare per più tempo rispetto agli italiani, si tratta di soggetti allocati nel settore agricolo (qui sono il 29% i soggetti che lavorano per più tempo rispetto agli italiani) e in quello edile (dove sono il 15% coloro che lavorano più tempo rispetto ai colleghi italiani), provenienti dal continente africano (57%) e dall'Est-Europa (43%). Quanto segue sono estratti di brani dove le lavoratrici riportano la loro personale esperienza:
“Lavoravo in un bar, avevo un contratto per 7 ore lavorative, in realtà le ore effettive di lavoro erano più di 13, anche i colleghi italiani erano nella stessa situazione, con la differenza che le ore lavorative extra sebbene in nero erano quantomeno pagate. […]Quando ho fatto presente che ritenevo ingiusto il mio trattamento rispetto al modo in cui erano trattati i colleghi italiani, il proprietario mi ha invitato a presentare le dimissioni, cosa che ho fatto perché non ce la facevo più”.
“Sul lavoro le discriminazioni non riguardavano tanto la condizione giuridica-lavorativa, visto che tutti, italiani compresi, erano assunti in nero. La differenza di trattamento la sentivo nel modo in cui ci facevano svolgere il lavoro. A noi stranieri non era concesso di parlare e fermarci nemmeno per un attimo, pena il richiamo e le offese da parte della “fattora”, cosa che invece potevano fare gli italiani, i quali tendevano a scaricare parte del loro lavoro su di noi”.
Come si può notare i processi di discriminazione permettono di sfruttare maggiormente situazioni di già grave “sfruttamento” lavorativo, permettono come si è già ricordato sopra, di accentuare i processi di “svalorizzazione della forza lavoro dipendente”[4]. In realtà andare a vedere e studiare le concrete situazioni nelle quali i lavoratori migranti diventano oggetto di pratiche discriminatorie permette di ricostruire e palesare le caratteristiche intrinseche dei sistemi economici dei paesi di destinazione. I modi in cui è gestito il fenomeno migratorio, le modalità di inserimento lavorativo dei soggetti migranti, grazie a quella che Sayad [A., 1996] definisce “Funzione specchio dell’immigrazione”costituiscono “ l’occasione privilegiata per rendere palese ciò che è latente nella costruzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rilevare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di innocenza o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o di non pensato sociale” [Ibid., pag. 10].
In altri termini l’immigrazione, più di ogni altro fenomeno sociale, è capace di rilevare le caratteristiche strutturali dei così detti “paesi di accoglienza”, non a caso nella costruzione e veicolazione del discorso razzista, i così detti “imprenditori del razzismo” declinano le varie forme di pregiudizio sociale in base ai problemi pregressi di un territorio, così nel sud Italia gli immigrati diventano causa della disoccupazione e del lavoro nero, nelle periferie metropolitane della prostituzione e dello spaccio, nel nord-est d’Italia gli immigrati sono i responsabili della mancanza di abitazione perché pagano affitti più alti degli italiani vivendo ammassati in pochi metri quadri e così via [Perrone L., Idem]. Per dirla con Pugliese [E., 1993], i problemi che “creano” gli immigrati sono in realtà i problemi delle “diverse italie” rovesciati addosso alla straniero, creando in questo modo facili capri espiatori, per allentare tensioni sociali interne.
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Note
[1] Come dice uno degli intervistati: “le cose oggi sono cambiate in peggio, se perdi il lavoro fisso non lo trovi più. Gli imprenditori hanno maggiori possibilità di scelta. Non mi era mai successo in 14 anni di rimanere un solo giorno a casa senza lavoro, oggi succede”. Una cosa che merita di essere sottolineata è il fatto che, l’abbassamento generale delle condizioni lavorative viene imputato, dai soggetti intervistati, alla concorrenza esercitata sul mercato del lavoro locale dall’arrivo di romeni, polacchi e bulgari, anziché essere ricerca nelle dinamiche economiche che ridisegnano le condizioni lavorative. Si assiste in questo caso alla ri-proposizione di copioni culturali, già nel recente passato, adoperati dai cittadini autoctoni per stigmatizzare a loro volta i cittadini albanesi nei primi anni del loro arrivo. Una situazione questa che tra l’altro denota la mancanza di sindacalizzazione tra i lavoratori di questo settore, e che favorisce processi di messa in concorrenza dei lavoratori che hanno come effetto quello di minare ed indebolire ulteriormente la capacità contrattuale di una forza lavoro, per altro già debole da questo punto di vista. Senza apparire retorici, è possibile affermare che si assiste alla riproposizione, in chiave moderna, della vecchia logica del divide et impera. Torna al testo
[2] Il progressivo venir meno dell’intervento pubblico in economia ha “ristrutturato” i meccanismi di redistribuzione del reddito tra i diversi starti sociali della popolazione. Questi, meccanismi a seguito della crisi dei sistemi “regolativi intensivi”, sono stati in ampia parte delegati al funzionamento del mercato, che non avendo però nessuna capacità regolativa diretta ha aperto vertenze critiche laceranti più che costruire le basi di un nuovo regime regolativo [Mingione E., 1997]. Allo stato attuale i welfare nazionali devono confrontarsi con le crescenti difficoltà legate alla redistribuzione del reddito e ai crescenti squilibri socio-economici creati dalla nuova struttura occupazionale sempre più polarizzata. Devono inoltre confrontarsi con i mutamenti socio-demografici in atto, l’aumento delle speranza di vita, il calo della natalità, le famiglie di fatto, l’aumento dei divorzi e delle separazioni erodono l’efficacia della funzione micro-redistributiva delle famiglie che tendono anch’esse a polarizzarsi tra situazioni con un eccesso di risorse, come le coppie senza figli con entrambi i coniugi impiegati in carriere lavorative a reddito medio o alto, e situazioni con deficit di risorse, come le famiglie monoparentali, quelle numerose sostenute da un solo percettore di reddito basso, gli anziani soli con pensioni insufficienti. Le attuali modalità di distribuzione delle disuguaglianze stanno diventando incoerenti con un sistema di integrazione sociale, perché tendono a spingere fasce crescenti di popolazione verso un’area cronica di esclusione sociale [Ibid.]. A questa situazione sono legati processi di terziarizzazione dell’economia, poiché molti servizi di cui necessitano le famiglie e i soggetti singoli, non possono più essere erogati dai welfare nazionali proprio perché la domanda dei servizi espressa è troppo estesa ed articolata rispetto alle ridotte capacità di intervento degli stati nazionali. In questa situazione è spesso il mercato, con la diffusione di forme occupazionali con caratteristiche di informalizzazione, a fornire direttamente il servizio. Si pensi ad esempio alla diffusione del lavoro di assistenza e cura delle persone anziane, svolto nella stragrande maggioranza dei casi da donne immigrate, impiegate a condizioni lavorative assai precarie. I processi di terziarizzazione e l’informalizzazione dell’economia, il peso crescente delle forme di lavoro nero, precario e temporaneo denunciano lo scollamento tra l’attività lavorativa, da un lato, e l’incapacità delle politiche pubbliche di garantire condizioni minime di vita e integrazione sociale, dall’altro. Nel tempo del “capitalismo flessibile” il cumularsi di svantaggi sociali a carico di determinati gruppi di popolazione –minoranze, immigrati, abitanti di aree periferiche e degradate delle grandi città- si traduce, sempre più drammaticamente, in un ampliamento della massa di soggetti costretti a vivere in condizione di esclusione sociale [Castel R., 1995]. Torna al testo
[3] Le tavole di contingenza riguardanti questi dati sono riportati in allegato, cfr. “allegato 3” Torna al testo
[4] Situazione particolarmente evidente nel settore agricolo, dove il meccanismo del “sottoinquadramento” è abitualmente utilizzato per i cittadini stranieri intervistati, i quali hanno dichiarato che pur essendo assunti come lavoratori generici in realtà svolgono tutti i compiti che gli sono richiesti. Alcune differenze sono tuttavia riscontrabili nello svolgimento di mansioni “altamente specializzate”, come la potatura degli alberi, la quale è affidata esclusivamente a cittadini italiani. Una mansione per la quale è prevista una paga di 35 euro per 6 ore lavorative. Torna al testo.